Mercoledì 13 Novembre 2024

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Senza il Cristianesimo... niente progresso tecnologico

C’è un fatto che non può essere negato e da cui devo necessariamente partire: la planetarizzazione del mondo è iniziata dal bacino del Mediterraneo. Partiamo, dunque, da questo interrogativo: perché il progresso scientifico e tecnologico è partito dal bacino del Mediterraneo?   Si possono conoscere tante nozioni, si possono aver fatto anche ricerche storiche brillanti e con metodologie inappuntabili, ma se non si sa rispondere a domande come questa è tutto culturalmente vano… perché si tratta di domande che tutti possono porre: anche un bambino di otto anni che ha da poco iniziato a studiare la storia. Eppure la risposta non è difficile. È il Cristianesimo (soprattutto con la sua specifica antropologia e il mistero dell’Incarnazione) ad aver reso il Mediterraneo culla di civiltà per il mondo intero. Nella cultura cristiana è assente la demonizzazione del corpo e delle realtà materiali. E la tecnologia è – appunto – quella manifestazione dell’umano per il miglioramento delle condizioni materiali di vita. La scienza è una conoscenza organizzata, una relazione fra concetti. La tecnica, invece, è l’esito pratico che si dà alla conoscenza scientifica intervenendo sulla realtà. L’antropologia cristiana va ad innestarsi su un’antropologia che è già quella dell’Ebraismo, la quale valorizza l’individualità e soprattutto l’unitarietà dell’individuo. Il “Dio disse” e il “Dio vide che era cosa buona del libro del Genesi(1) evidenziano la volontarietà del gesto creatore, in contrapposizione a visioni gnostiche – diffuse soprattutto nelle culture pagane – ove la nascita del mondo e delle realtà corporali figuravano come conseguenze di una caduta, di un gesto non voluto da parte di Dio. Nella Bibbia è scritto: «Quanto sono grandi, Signore, le tue opere! Tutto hai fatto con saggezza, la terra é piena delle tue creature» (Salmo 104, 24). Ma la Bibbia non si limita a valorizzare la positività del creato, ma anche la centralità dell’uomo all’interno della creazione: «E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza»... e quindi la legittimità dell’uomo di dominare la natura, di servirsi della natura... «e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra» (Genesi 1, 26). Dopo il peccato originale, servirsi della natura vuol dire anche ripararla. Rendere, cioè, la natura più “amica” dell’uomo, proprio perché il peccato originale ha ferito le leggi della natura stessa. Da tutto questo si comprende nel Cristianesimo tanto la legittimità quanto la necessità morale della tecnica. È doveroso applicare la propria intelligenza sulla natura al fine di migliorare le proprie condizioni materiali di vita. A questo poi deve aggiungersi che nel pensiero cristiano l’accettazione di una logica realista – per esempio il principio di non contraddizione – e quindi il riconoscimento dell’oggettività della verità, rendono possibile – e di molto – l’indagine scientifica. La scienza si sviluppa, dopo secoli di tentativi falliti delle prime civiltà, all’interno di una cultura – quella cristiana appunto – convinta che la ragione umana – attraverso il metodo analogico – sia capace di cogliere nel creato l’esistenza e la presenza del creatore. Afferma l’astronomo Jaki: «(Il cristianesimo, introducendo la distinzione fra) il soprannaturale e il naturale (in luogo della distinzione fra) le regioni celesti e quelle terrestri (propria di tutti i paganesimi), permise (...) di considerare le regioni celesti allo stesso livello del resto, e quindi governate dalle stesse leggi. (... è questa fede) la più grande fortuna della scienza (...)»[1].   Il Cristianesimo obbliga alla tecnica Ma è con il mistero dell’Incarnazione che il senso della tecnica trova pieno diritto di cittadinanza nel discorso antropologico. Dio si fa uomo e viene a santificare la dimensione terrena, viene a sottolineare come la salvezza la si realizzi già su questa terra. Per cui la dimensione terrena non è una realtà da fuggire, ma da migliorare. Non è una realtà da rinnegare, ma da abbracciare. Non è una realtà da demolire, ma da restaurare. Il Cristianesimo è certo una religione proiettata verso l’esito escatologico, ma non per questo disattento all’hic et nunc. Il continuo ricordare le verità ultime non deve – anzi – impedire al cristiano di dimenticare le sue condizioni attuali di vita. Se già l’Ebraismo costituisce un elemento importante di valorizzazione dell’individuo – proprio grazie alla sua visione dell’uomo come realtà voluta da Dio in spirito e corpo – a maggior ragione il Cristianesimo, ove la natura umana corporale, tanto non costituisce elemento negativo, da esser stata addirittura assunta da Dio stesso: «Se la carne non dovesse essere salvata, scrive Sant’Ireneo- in nessun modo il Verbo di Dio si sarebbe fatto carne»[2]. Il corpo va aiutato nelle condizioni in cui si trova a vivere. Il Cristianesimo legittima la tecnica e, in un certo qual modo, obbliga moralmente ad essa.Addirittura questa prospettiva tecnica diventa anche una via di santificazione personale. A differenza di altre culture, nel Cristianesimo, essendo l’uomo spirito e corpo, non ci si può santificare incrociando le braccia. È rifiutata una salvezza ridotta esclusivamente alla dimensione contemplativo-estatica. La regola benedettina, con il suo ora et labora, costituisce non solo il modo di essere della vita monastica occidentale, ma lo stesso atteggiamento dell’uomo occidentale-cristiano: si comunica con Dio non solo attraverso la preghiera, ma anche attraverso il lavoro, attraverso il modo di essere dinamico dell’uomo[3]. Ecco ciò che dice direttamente san Benedetto: «L’ozio è nemico dell’anima; e quindi i fratelli devono in alcune determinate ore occuparsi nel lavoro manuale, e in altre ore, anch’esse ben fissate, nello studio delle cose divine» (Regula, XLIII, 1). Il monachesimo, perché fa proprio il senso integrale del Cristianesimo e del mistero dell’Incarnazione, sensibilizza l’uomo alla tecnica. Nel XII secolo, se un povero contadino voleva imparare ad usare l’aratro o a difendersi da una pestilenza, doveva andare dai monaci[4], perché la loro vita era tutto all’insegna della concretezza. Un antico detto monastico dice che un monaco impara più dagli alberi che dai libri.   Gnosi, scienza e tecnica C’è poi un altro importante motivo per cui il Cristianesimo ha facilitato lo sviluppo scientifico e tecnologico. Mi riferisco all’essenza non gnostica del Cristianesimo stesso. La gnosi è una convinzione secondo cui materia e spirito sarebbero due realtà in contrapposizione. Lo spirito avrebbe un valore positivo, mentre la materia avrebbe un valore negativo. Pertanto, l’uomo avrebbe una dignità infinita nel suo spirito, e non nel suo corpo. L’uomo sarebbe un “pezzetto” di Dio decaduto nella “prigione” della materia. L’uomo realizzarebbe la salvezza solo attraverso la dimensione spirituale e non attraverso quella corporale. Ma in tal modo la dimensione spirituale, sganciata dalla quella corporale, si riduce a puro esercizio intellettuale. E infatti la gnosi, che vuol dire “conoscenza”, implica che la salvezza si raggiunga solo attraverso questa. La separazione dell’intelletto dal corpo si traduce inevitabilmente in una esclusiva valorizzazione della scienza, a discapito della tecnica. Ma a differenza di culture precedenti, con evidenti contaminazioni gnostiche, il Cristianesimo, con la sua antropologia totalmente alternativa alla gnosi (anche per il mistero dell’Incarnazione: Dio che assume la carne perché questa costituisce valore), e una spinta non indifferente affinché la scienza si traduca intecnica. [1] dom Stanley L. Jaki O.S.B., Dio e i cosmologi, Città del Vaticano 1991, p.194. [2] Ireneo di Lione, Adversus haereses, V, 14, 1. [3] «(...) in Occidente, (il monachesimo) fu attivo, pratico, animato da un gagliardo spirito di proselitismo, fornito di mirabile virtù organizzatrice (...) accolse uomini di ogni temperamento e attitudine e cercò sì, pace e tranquillità, ma anche si volse al lavoro dei campi, al dissodamento e ripopolamento di luoghi abbandonati e incolti alla predicazione, all’attività sociale. (...) san Benedetto di Norcia (+543) (...) detta (...)una ‘regola’ (non solo ascetica ma) anche intellettualmente e manualmente operosa. L’ozio è bandito come un nemico; il lavoro, nelle sue varie forme, raccomandato, anzi imposto, per il suo valore morale» (G. Volpe,Il Medio Evo, 3° ed., Milano 1943, p. 52). [4] Cfr. G. Penco, Il monachesimo. Fra spiritualità e cultura, Milano, 1991. Corrado Gnerre