Martedì 14 Maggio 2024

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Sant’Ignazio di Loyola e la Compagnia di Gesù

Ignazio (in basco Íñigo) López nacque a Loyola intorno al 1491 e morì a Roma il 31 luglio del 1556 (canonizzato il 12 marzo 1622 da Papa Gregorio XV).Ultimo di tredici figli, faceva parte di una nobile famiglia che abitava un piccolo castello nella regione basca. Pur destinato al sacerdozio, egli non aveva la vocazione: leggeva continuamente romanzi cavallereschi e decise così di intraprendere la carriera militare, conducendo per un certo tempo la vita avventurosa e anche dissipata del soldato (un po’ come san Francesco). E, come per san Francesco, accadde un episodio che modificò per sempre la sua vita: combattendo nel 1521 nell’esercito del giovane Re di Spagna e Imperatore del Sacro Romano Impero Carlo V d’Asburgo, nella celebre battaglia di Pamplona contro i francesi venne ferito gravemente. Con le gambe fracassate, Ignazio fu costretto ad una lunga e dolorosa degenza. Ritornato al castello di famiglia, non essendoci più romanzi cavallereschi da leggere e non sapendo come trascorrere il tempo, si fece dare da una sua cognata due vecchi libri: una Vita di Gesù e una raccolta di Vite di Santi. Ignazio li lesse e la sua vita cambiò per sempre. E con essa la storia della Chiesa e della Cristianità. Ignazio comprese che il Signore voleva che restasse soldato, ma un soldato diverso, un soldato di Cristo. Ai piedi della Madonna di Monserrat lasciò i vestiti di cavaliere e le armi. Si ritirò per mesi in preghiera e penitenza nella grotta di Manresa, dove secondo la tradizione la Vergine Ss.ma gli ispirò la sua opera celeberrima, Gli Esercizi spirituali; quindi andò in pellegrinaggio in Terrasanta. Poi decise di approfondire la propria fede. Riprese i libri e studiò prima a Barcellona, poi alla Sorbona a Parigi, dove si laureò e dove iniziò in concreto il suo apostolato. Infatti, egli ebbe subito la percezione di quanto l’infezione luterana stesse dilagando, specie tra alcuni docenti e molti studenti. Comprese allora quale sarebbe stata la sua missione in questo mondo: difendere la Chiesa e la Verità dall’eresia protestante.   Ad Majorem dei Gloriam Con i suoi primi 9 compagni, il 15 agosto 1534, nella chiesa parigina di Saint Pierre de Montmartre, fece voto di vivere in povertà e in castità, di servire totalmente il Papa e fondò un nuovo ordine religioso, cui diede il militaresco nome di Compagnia di Gesù. Motto dell’ordine fu: “Ad Majorem Dei gloriam”. Sempre come san Francesco, decise di venire a Roma per avere la definitiva approvazione papale sia del nuovo Ordine che della regola. Giunto alla collina della Storta, nei pressi di Roma, ebbe la visione del Sacro Cuore, con la scritta: “Propitius ero tibi Romae” (“Ti sarò propizio a Roma”): da questo evento si innestò il culto del Sacro Cuore in ambiente gesuitico. E da qui scaturisce anche la decisione di rimanere per sempre nella capitale della Cristianità. Papa Paolo III approvò l’Ordine nel 1540; più tardi Ignazio, nominato “generale” della Compagnia, scrisse per essa le Costituzioni e gli Esercizi spirituali: le pratiche di meditazione e di educazione all’autocontrollo che dovevano servire ai membri per prepararsi alla loro missione. Agli usuali tre voti, Ignazio ne volle aggiungere un quarto: l’obbedienza assoluta al Papa (e al generale dell’Ordine). Un’obbedienza “senza se e senza ma” veramente nel senso concreto del concetto, espressa dalla famosa sentenza ignaziana: “Perinde ac cadaver”. Nelle Costituzioni troviamo scritto al paragrafo 547: «(...) facciamo quanto ci sarà comandato con molta prontezza, gaudio spirituale e perseveranza, persuadendoci che tutto ciò è giusto, e rinnegando con cieca obbedienza ogni parere e giudizio personale in contrario, in tutte le cose che il superiore ordina... Persuasi come siamo che chiunque vive sotto l'obbedienza si deve lasciar portare e reggere dalla Provvidenza, per mezzo del superiore, come se fosse un corpo morto, che si fa portare dovunque e trattare come più piace».   Lo spirito della Controriforma L’ordine dei gesuiti ebbe un enorme e rapido sviluppo. Al contrario di quanto avviene oggi più o meno in ogni ordine religioso (l’affannosa ricerca di nuovi seminaristi e adepti), Ignazio scoraggiava i giovani dall’entrare nella Compagnia, ponendone subito in rilievo tutte le difficoltà, legate soprattutto al voto di obbedienza assoluta. Si racconta il seguente episodio: un giorno un giovane nobile chiese di entrare nella Compagnia e di poter incontrare Ignazio (cosa peraltro non facile per nessuno), dichiarandosi pronto a sostenere qualsiasi sacrificio richiesto. Ignazio volle esaminarlo: ricevutolo dinanzi a sé, lo lasciò parlare, ascoltando le promesse del giovane di disposizione al martirio e all’obbedienza incondizionata. Improvvisamente, lo interruppe e gli chiese di fare tre salti indietro. Il giovane chiese perché dovesse farli. Ignazio lo guardò e gli disse che non era adatto a divenire gesuita… Aveva chiesto “perché?”! Al contrario di quanto la mentalità moderna possa credere, proprio la durezza e la difficoltà selettiva donavano alla Compagnia un fascino irresistibile. Così, in pochi anni, il numero dei gesuiti salì enormemente, molto più dei limiti imposti dai pontefici. La Compagnia si diffuse in tutta Europa, e i suoi figli furono mandati in tutto il mondo a evangelizzare le genti. Sant’Ignazio fondò a Roma due collegi, il Collegio Romano e il Collegio Germanico, quest’ultimo specificamente destinato alla formazione dei sacerdoti di lingua tedesca inviati a combattere la diffusione delle dottrine di Lutero e di Calvino. Nelle sale dove gli allievi vivevano, erano affrescate scene di tortura: così i futuri missionari avevano tutti i giorni sotto gli occhi il destino che avrebbero potuto subire se fossero caduti nelle mani dei loro nemici. Riguardo al Protestantesimo, l’idea geniale di Ignazio, ma soprattutto dei suoi successori, fu quella di cogliere l’occasione della Pace di Augusta, che prevedeva che nelle terre imperiali le popolazioni dovessero seguire la scelta religiosa del Principe locale (“Cuius regio et ejus religio”). Teologi preparati e padri spirituali vennero per decenni inviati non solo nelle corti rimaste cattoliche al fine di garantire la fedeltà alla Chiesa della famiglia regnante, ma anche nelle corti protestanti, allo scopo ultimo della conversione del sovrano, o almeno per ottenere la pace religiosa per i cattolici. Essi seppero incarnare alla massima espressione lo spirito della Controriforma in tutto il mondo germanico, e, in tal maniera, i gesuiti svolsero un ruolo determinante come baluardo della cattolicità in tutte le terre imperiali. La Compagnia era di fatto un vero e proprio esercito al servizio del Papa, che cercò con successo di limitare la diffusione delle teorie di Lutero e di Calvino, con una politica volta da un lato a fare colpo sulla sensibilità popolare con l’arte, le processioni, la devozione alla Madonna e ai santi, dall’altro a esercitare una notevole influenza sulla classe dirigente. La Compagnia di Gesù aprì in tutte le nazioni collegi, in cui – con un programma di studi rigoroso, fondato sull’insegnamento delle lingue classiche – venivano educati non solo i futuri sacerdoti, ma anche i figli della nobiltà e dell’alta borghesia che volevano ricevere un’educazione qualificata. Per tutto il XVII e XVIII secolo, non solo lo spirito teologico e spirituale della Controriforma, ma anche l’arte sia colta che popolare del Barocco e in qualche modo tutta la cultura e l’istruzione europea trovarono i loro massimi esponenti nel padri gesuiti. La Compagnia divenne l’istituzione formante e caratterizzante di tutto il mondo religioso, civile e culturale europeo dei secoli moderni. I gesuiti col tempo divennero sempre più soggetti a critiche, specie da parte di correnti cripto eretiche come i giansenisti, che li accusavano di “lassismo”, non solo per la loro tendenza a vivere nelle corti, ma anche per la loro apertura alla spiritualità popolare e barocca, e in particolare per il culto del Sacro Cuore (ci fu perfino chi parlò di “cardiolatria”…). In realtà, la fucina di santi dei gesuiti non teme confronti: in pochi decenni, possiamo ricordare stelle del paradiso comesan Francesco Saverio, uno dei dieci fondatori, detto “l’Apostolo dei pagani”, perché fu missionario in India e Giappone (dove battezzò fino a 100.000 persone); san Roberto Bellarmino, Dottore della Chiesa, che processò Giordano Bruno e Galileo Galilei, e san Luigi Gonzaga, parente del Duca di Mantova, che, giovanissimo, rinunciò a tutte le ricchezze e gli onori per farsi missionario fra gli appestati: morì giovane di peste, e la Chiesa lo ha consacrato “Patrono universale della gioventù”.   I gesuiti inviati nel mondo La falsità dell’accusa di lassismo è soprattutto provata però dal vero e proprio esercito di gesuiti che furono nei decenni inviati in ogni parte del mondo per evangelizzare i pagani. Oltre a san Francesco Saverio, un numero indefinito di figli di sant’Ignazio partì per l’Asia (ricordiamo Matteo Ricci in Cina), l’Africa, il Nuovo Mondo. Qui, a partire dal 1609, i gesuiti avevano realizzato nelle regioni al confine fra i domini spagnoli del Paraguay e quelli portoghesi del Brasile un’esperienza politica e religiosa di grande importanza: le “Riduzioni” (in spagnolo Reducciones). In queste missioni, sottratte all’autorità del Re di Spagna, gli indios vivevano sotto la protezione dei missionari cattolici, coltivando le terre comuni e dedicandosi ad attività artigianali. I gesuiti li proteggevano dalle incursioni dei mercanti di schiavi, li istruivano nelle tecniche agricole e li incoraggiavano a vivere in piccole comunità di villaggio fondate sulla famiglia, insegnavano loro a leggere e a scrivere. Questa situazione suscitò le proteste dei più spregiudicati fra i coloni spagnoli, che avevano tutto l’interesse a fare schiavi gli indios e a impadronirsi delle loro terre. Le proteste contro i gesuiti dei governatori spagnoli furono una delle principali conseguenze della soppressione dell’Ordine: il 1767, anno in cui i gesuiti furono espulsi dalla Spagna, segnò anche la fine delle Riduzioni e con esse della libertà per migliaia di Indios che persero le terre in cui vivevano e, in molti casi, la libertà.   Soppressione, rinascita e “cambiamento” della Compagnia di Gesù Nei decenni dell’Illuminismo la guerra contro la Compagnia si intensificò radicalmente: lo spirito anticattolico illuminista vedeva nei gesuiti il nemico giurato da abbattere. Con la complicità delle famiglie reali cattoliche (i vari rami dei Borbone in primis) e con quella incredibile e imperdonabile di un Pontefice Romano, Clemente XIV, giansenisti, massoni e illuministi poterono ottenere ciò che qualche decennio prima era impensabile: nel 1773 la Compagnia fu sciolta e bandita, al punto tale che accadde il paradosso che molti gesuiti trovarono rifugio nella Prussia protestante e nella Russia ortodossa! Superfluo ricordare quanto questo atto folle abbia poi facilitato la diffusione delle idee sovversive tanto nelle famiglie reali e nelle élites politiche e culturali, quanto fra le popolazioni, specie fra la borghesia colta, i militari, i burocrati: in pratica, i philosophes presero il posto, sia fisicamente che con i loro scritti, dei gesuiti nella gestione della cultura, nell’educazione dei giovani, nelle corti reali. Ed è ancor più superfluo notare quanto tutto questo abbia poi facilitato il trionfo della Rivoluzione Francese e quindi l’affermazione degli ideali anticattolici e laicisti in tutta Europa, nonché la persecuzione fisica di migliaia e migliaia di cattolici in Francia, Italia, Spagna ecc. Solo nel 1814, con la caduta di Napoleone e con l’affermazione dei principi della Restaurazione, Pio VII ricostituì la Compagnia di Gesù. Per tutto il XIX secolo, i suoi esponenti di punta combatterono una indefessa battaglia ideale contro le forze della Rivoluzione liberale, socialista e massonica. Specie in Italia, lo scontro fu durissimo: un gruppo di gesuiti italiani (Carlo Maria Curci in primis, quindi Luigi Taparelli d’Azeglio, Antonio Bresciani, Giovan Battista Pianciani) fondò una rivista di importanza capitale, La Civiltà Cattolica, che condusse per decenni delle eroiche battaglie intellettuali contro il Risorgimento laicista prima e contro la diffusione di tutti gli errori della modernità nella prima metà del XX secolo, a partire dal liberalismo e dai totalitarismi, poi. La Compagnia di Gesù, così, per altri 150 anni, rimase il baluardo della Verità teologica, filosofica, storica, morale. Occorre dire che le cose sono cambiate dagli anni della Seconda Guerra Mondiale in poi. Un gruppo sempre più consistente e influente di teologi gesuiti di nuova generazione (Theilard de Chardin, de Lubac, Rahner e altri) introdussero con successo nella Compagnia idee eterodosse o almeno pericolosamente vicine al modernismo teologico, scomunicato da san Pio X, producendo, di fatto, sebbene a diversi livelli, il distaccamento della Compagnia dall’antica impostazione di fedeltà alla sana dottrina tradizionale della Chiesa e il diffondersi del progressismo all’interno della Chiesa stessa, del neomodernismo, delle deviazioni postconciliari, fino alla stessa teologia della liberazione. In pratica, il processo di sovversione teologica, spirituale, liturgica e morale in atto da decenni nella Chiesa, e con un crescendo impressionante dopo il Concilio Vaticano II, vede nella Compagnia, se non l’unico certamente il principale artefice ideale e a volte anche operativo. Oggi, sebbene forse non più in maniera radicale come nei decenni anteriori e posteriori al Concilio, la Compagnia (eccetto che per lodevoli singole eccezioni) rimane in generale espressione salda del progressismo teologico e politico dei nostri giorni. Esattamente il contrario di tutto quanto insegnato, voluto e vissuto dal Fondatore della Compagnia di Gesù, per il quale l’obbedienza totale al Papa e al magistero universale e immutabile della Chiesa era la condizione prima e ineliminabile non solo dell’essere gesuita, ma dell’essere cattolico, dell’essere dalla parte di Gesù Cristo e non dei suoi nemici, terreni e ultraterreni. Ignazio di Loyola è lo stendardo della Cattolicità del XVI secolo (e in qualche modo di tutta la modernità), che si opposto, nei giorni terribili del trionfo dell’eresia e della fine dell’unità della Res Publica Christiana, allo stendardo del male, incarnato da Martin Lutero. Ignazio e Lutero sono i due poli opposti dello scontro fra la luce e le tenebre nel secolo più religioso della storia umana, i due stendardi della lotta fra la nascente Rivoluzione anticristiana e la risposta a tale Rivoluzione, quella che diverrà nei secoli successivi la Contro-Rivoluzione cattolica. Contro Lutero e i suoi soci, Dio scelse in primis Ignazio e la sua Compagnia. Il fatto che oggi per la prima volta vi sia sul Soglio di Pietro un Pontefice gesuita, costituirà certamente un passaggio determinante per la storia della Chiesa e della Cristianità tutta.   Massimo Viglione     La spiritualità di Sant’Ignazio come risposta agli errori di Lutero   Sant’Ignazio di Loyola è una delle figure che ha maggiormente influito non solo nella storia religiosa ma anche in quella culturale dell’Occidente. Approfondiamo in questa voce la sua spiritualità, soprattutto in relazione alla lotta contro il Luteranesimo.   Trasfigurare l’umano nel divino, portare il divino nell’umano Ad maiorem Dei gloriam: A maggior gloria di Dio. È questa la frase-cuore della spiritualità ignaziana. Una spiritualità che costituì una significativa ed efficace risposta agli errori che la Rivoluzione protestante stava diffondendo. Una spiritualità che nacque per quello scopo, ma che costituisce un valore sempre attuale per il fedele della Chiesa militante. La spiritualità ignaziana è fondata su un capolavoro, gli Esercizi spirituali, che il Santo di Loyola scrisse (ispirato dalla Vergine… c’è chi dice che addirittura la Vergine glieli avrebbe dettati) quando si trovava in eremitaggio nella Grotta di Manresa. Lo scopo degli Esercizi è porre l’uomo all’interno della dimensione dell’eternità. L’esercitante deve inserire nella propria vita i misteri centrali della Redenzione affinché possa trasfigurare la sua esistenza in una prospettiva di senso, data appunto dall’essere destinato a vivere per l’eternità con Dio. Sant’Ignazio tiene a precisare che la presenza di Dio non è una possibilità esclusiva dell’esito ultraterreno (nel senso che l’uomo può – se lo vuole – arrivare a Dio quando riuscirà a conquistare il Paradiso), ma essa è da vivere già nella propria vita terrena. Anzi, è proprio questa la specificità dell’autentica vita cristiana. La meditazione dei misteri della Redenzione deve avvenire coinvolgendo il proprio umano: finanche i sensi devono partecipare. Il Santo spagnolo tiene a far capire all’esercitante come sia importante osservare attentamente le cose, anche le più banali, per comprenderne il significato: l’Eterno può essere più facilmente sperimentato dall’uomo, solo se è inserito nel concreto della vita quotidiana. È ciò che sant’Ignazio definisce composizione di luogo. Queste le sue direttive nella seconda contemplazione della seconda settimana dei suoi esercizi: «Sarà qui vedere con gli occhi dell’immaginazione la via da Nazareth a Betlemme, considerandone la lunghezza, la larghezza, e se tale via sia pianeggiante o se attraversa valli o colline. Similmente osservando il luogo o grotta della natività: è grande o piccola? È bassa o alta? Come era disposta? (...) Il primo punto è vedere le persone, cioè vedere nostra Signora, Giuseppe, l’ancella e il bambino Gesù appena nato, facendomi io poverello e piccolo schiavo indegno, guardandoli e servendoli nelle loro necessità, come se fossi presente, con tutto l’affetto e il rispetto possibile. E quindi riflettere in me stesso per ricavare qualche frutto. Il secondo: osservare, notare e contemplare quello che dicono; e, riflettendo in me stesso, ricavarne qualche profitto. Il terzo: guardare e contemplare quello che fanno, come il camminare e lavorare, perché il Signore nasca in somma povertà per poi morire in croce dopo tante fatiche fame, sete, caldo e freddo, ingiurie e affronti; e tutto questo per me. Poi, riflettendo, ricavare qualche profitto spirituale». Il senso di tutto questo sta in una duplice prospettiva che deve essere curata contemporaneamente. Da una parte trasfigurare l’umano nel divino, dall’altra portare il divino nell’umano.   Ignazio e Lutero Ed è  proprio questa duplice prospettiva a costituire una risposta agli errori del Luteranesimo. Infatti, la separazione tra ragione e fede che aveva operato l’eresiarca di Erfurt comportava inevitabilmente l’insorgere di due errori estremi: il laicismo da una parte e il settarismo teocratico dall’altra. Sant’Ignazio, invece, ripropone quella che è la specificità cattolica: la compenetrazione, senza confusione, della dimensione soprannaturale in quella naturale e di quella naturale in quella soprannaturale. Il tutto in una prospettiva di militanza, che trovava spiegazione anche nel temperamento tipicamente militare del Santo di Loyola. Nella meditazione cosiddetta dei Due stendardi, ogni uomo è chiamato ad una scelta drammatica: sotto quale stendardo combattere? Sotto quello di Satana o sotto quello di Cristo? Non ne esiste un altro. Chi non vuol scegliere, ha già scelto di rifiutare la Redenzione. A questo discorso però va aggiunto un particolare, che non ci sembra di secondaria importanza. Lutero, in realtà, non aveva la vocazione né alla vita monastica né al sacerdozio; da qui la sua infelicità. Oggi sappiamo che quando era all’Università di Erfurt, si batté a duello con un compagno, Gerome Bluntz, uccidendolo. Dunque, entrò nel monastero degli agostiniani solo per sfuggire alla giustizia. Lui stesso lo dice: «Mi sono fatto monaco perché non mi potessero prendere. Se non lo avessi fatto, sarei stato arrestato. Ma così fu impossibile, visto che l’ordine agostiniano mi proteggeva». Questa assenza di vocazione lo rese nevrotico e infelice. Si narra che durante la sua prima Messa, al momento dell’offertorio, stava per fuggire e fu trattenuto dal suo superiore. Potremmo chiederci: ma se eventualmente si sbaglia la vocazione è possibile mai che il Signore non dia la grazia sufficiente per andare avanti? Certamente. Il problema di Lutero fu un altro: non volle rendersi docile alla Grazia. Quando si abbandona tutto e si tradisce la verità è sempre perché si è prima abbandonato la preghiera. L’uomo può abbandonare Dio, non Dio l’uomo. Lutero stesso scrisse  nel 1516, cioè prima della svolta della sua vita: «Raramente ho il tempo di pregare il Breviario e di celebrare la Messa. Sono troppo sollecitato dalle tentazioni della carne, del mondo e del diavolo». Fu così che credette di trovare la soluzione della sua infelicità nella Lettera ai Romani (1,17): «Il giusto vivrà per la sua fede». Per la salvezza non occorrerebbe nessun sforzo di volontà se non quello di abbandonarsi ciecamente alla fede nel Signore (fideismo). In Lutero, dunque, si ritrova tanto il volontarismo quanto il fideismo. Il volontarismo: darsi una vocazione che non c’è; il fideismo: negare totalmente qualsiasi contributo della volontà. Due errori completamente diversi, ma, proprio perché errori, dalla origine comune. Ebbene, sant’Ignazio scrive negli Esercizi spirituali: «Ci sono tre tempi o circostanze per fare una buona e sana elezione. Il primo: è quando Dio nostro Signore muove e attrae tanto la volontà che, senza dubitare né poter dubitare, l’anima devota segue quello che le è mostrato, come fecero san Paolo e san Matteo nel seguire Cristo nostro Signore. Il secondo: quando si riceve molta chiarezza e conoscenza per mezzo di consolazioni e desolazioni, e per l’esistenza del discernimento degli spiriti. Il terzo: è il tempo di tranquillità. L’uomo, considerando prima perché è nato, e cioè per lodare Dio nostro Signore e salvare la sua anima, e desiderando questo, elegge come mezzo uno stato o un genere di vita nell’ambito della Chiesa, per essere aiutato nel servizio del suo Signore e nella salvezza della propria anima. È tempo di tranquillità quello in cui l’anima non è agitata da vari spiriti e usa delle sue potenze naturali liberamente e tranquillamente». Dunque, dice sant’Ignazio, è molto importante non sbagliare la propria vocazione avendo come unico scopo quello di rendere gloria a Dio. Sembra proprio una chiara allusione all’esperienza di Martin Lutero. Corrado Gnerre Massimo Viglione e Corrado Gnerre