Venerdì 19 Aprile 2024

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Cristianesimo e arti figurative

C’è un fatto che è difficile smentire: le arti figurative hanno trovato nella cultura cristiana la possibilità di raggiungere i livelli più alti. Da un certo punto della storia l’Occidente ha quasi monopolizzato la produzione più rappresentativa di queste arti.  

Grande passione per la concretezza

C’è però chi pone un’obiezione: se è vero che la religione cristiana, per la sua concretezza e per la sua vocazione simbolica, ha stimolato quantitativamente e qualitativamente la produzione delle arti figurative, è pur vero che, subito dopo la nascita del Cristianesimo, l’arte che si ispirò a questa religiosità si caratterizzò per una forte astrazione, quasi per una sorta di “sconcretizzazione” rispetto all’arte pagana. È questa un’obiezione che si fonda su un contenuto vero, ma non tiene conto di ciò che religiosamente si pativa in quel periodo. La “sconcretizzazione” della prima arte cristiana non era dovuta a un voluto rifiuto del concreto, quanto alla condizione di clandestinità del Cristianesimo, che aveva bisogno di presentarsi alternativamente alla tensione idolatrica del paganesimo e così anche l’arte prodotta ricercava visibilmente un’alternativa. Ciò durerà poco. Quando la polemica antipagana non avrà più ragion d’essere, l’arte cristiana potrà divenire se stessa: amore del concreto e trionfo dell’immagine.   Martiri per le immagini Il Cristianesimo è l’unica religione che può annoverare martiri per la difesa delle immagini. Nell’VIII secolo, l’Imperatore bizantino Leone III Isaurico decretò la distruzione delle immagini sacre, perché, secondo lui, fonti di idolatria. Era la famosa iconoclastia, che fu poi condannata nel Secondo Concilio di Nicea del 787, dove si decretò solennemente che il culto delle immagini di Dio e di sua Madre non solo è legittimo ma perfino lodevole, ciò anche perché l’Incarnazione del Verbo ha reso possibile la rappresentazione umana di Dio. Durante gli anni dell’eresia iconoclasta, si distinse la figura di san Giovanni Damasceno come grande apologista delle immagini sacre. Leone III Isaurico cercò di colpire Giovanni. Lo calunniò come traditore presso un suo amico, il Califfo di Damasco. Quest’ultimo cadde nel tranello e ordinò che Giovanni fosse punito con il taglio della mano destra, ma il Santo si raccomandò alla Vergine e le fece voto: qualora avesse avuto salva la mano, l’avrebbe per sempre usata per scrivere in suo onore e della sua immagine. La grazia fu accordata e san Giovanni Damasceno divenne il primo teorico del culto delle immagini. Durante le persecuzioni iconoclaste, molti furono i cristiani – soprattutto monaci – che persero la vita. L’abate Giovanni di Monagria venne cucito in un sacco e gettato in mare perché non voleva eseguire l’ordine di calpestare un’immagine della Vergine. Furono martirizzate anche delle donne. Teodosia, monaca di Costantinopoli, fu uccisa perché rovesciò una scala su cui si era inerpicato l’inviato dell’Imperatore per distruggere un’immagine di Cristo. Ma il martirio più emblematico fu quello di Stefano il Giovane, famoso monaco della Bitinia, che l’Imperatore Costantino V, figlio di Leone III, volle avere al suo fianco nella guerra alle immagini sacre. Stefano si rifiutò coraggiosamente. Si tentarono tutti gli stratagemmi. Si pensò finanche di compromettere la sua onorabilità: si costrinse una monaca a dichiarare di essere stata sedotta da lui, ma non vi fu verso di far recedere Stefano. Allora si decise di trascinarlo con la forza a Costantinopoli. Fu confinato in un’isola del Mar di Marmara, dove continuò a predicare in favore delle immagini sacre. L’Imperatore gli parlò personalmente. Da qui un episodio che è rimasto famoso: Stefano prese una moneta, indicò all’Imperatore l’effige di lui ivi stampata e affermò deciso che se quell’immagine era degna di rispetto, a maggior ragione dovevano essere degne di rispetto le immagini di Cristo e della Vergine. L’Imperatore non fu d’accordo, allora Stefano gettò la moneta e la calpestò. Fu la sua condanna: venne imprigionato e, malgrado non vi fu mai un preciso ordine dell’Imperatore, la fazione degli iconoclasti lo condannò a morte.   Ma perché il Cristianesimo è la religione delle immagini? I motivi che hanno reso il Cristianesimo la religione per eccellenza delle arti figurative sono tre: Primo: il Dio personale. Secondo: la specificità dell’antropologia cristiana. Terzo: il mistero dell’Incarnazione.  

Il Dio personale

La concezione di un Dio personale è importante per la valorizzazione dell’individualità. Il concepire Dio in maniera impersonale (monisticamente) come qualcosa cioè di non definito e di non definibile, svaluta il senso della distinzione. La personalità di Dio, quindi il suo essere altro dalla creazione, è legittimazione metafisica della distinzione. Ammettendo il Dio personale, si ammette la possibilità della diversificazione: il reale non è uno, ma molteplice; non una sola, ma tante sostanze costituiscono il reale. Nella distinzione può avere senso la descrizione. Se tutto è indistinto, il descrivere è una fatica inutile. Se invece il reale è all’insegna delle differenze, allora la descrizione si legittima: più è sottolineata la personalità di Dio, più forte diviene il senso dell’immagine, essendo questa un elemento distintivo del reale. Più è sottolineata la personalità di Dio, più forte diviene la passione per il contrasto cromatico.  L’artista, che è sensibile alla molteplicità della realtà, spesso traduce questa sensibilità con l’esplosione del colore, nella convinzione che è proprio il contrasto cromatico a poter maggiormente evidenziare la distinzione del reale stesso. Il Medioevo è stata forse l’unica epoca che non ha avuto tentazioni “cromo clastiche”, cioè non ha ostacolato l’esplosione del colore e questo soprattutto per il suo prendere molto sul serio il Cristianesimo. Ha scritto lo storico Le Goff: «(...) con una sorta di esasperazione, (...), l’uomo medievale (...) è chiamato a vedere e a pensare a colori l’universo e la società». La famosa frase di Rodolfo il Glabro, secondo cui intorno all’anno Mille l’intera Europa era ricoperta di un bianco mantello di chiese, viene malamente interpretata. L’“albus” del cronista medievale non vuol significare “bianco”, ma “splendente”, “brillante di colori”. Infatti, oggi sappiamo con certezza che le cattedrali medievali non erano grigie, così come appaiono oggi, ma colorate tanto all’interno quanto all’esterno. E non solo le cattedrali, tutte le arti figurative di questi secoli sono all’insegna dell’esplosione del colore. Dipinti, miniature, affreschi, vetrate, uniformi, abbigliamento di tutti i giorni, gonfaloni, stemmi, bandiere... Quanta diversità rispetto al monotono bianco – o per lo meno ad un uso misurato del colore – dominante nelle immagini della classicità! A differenza della monotonia cromatica che spesso è segno di tristezza e di disaffezione alla vita, il colore vivace è invece segno di vita, è trionfo dell’entusiasmo. E non è azzardato affermare che un simile trionfo del colore nel Medioevo sia segno della convinzione di un altro e ben più importante trionfo sul piano esistenziale: la vittoria sul peccato e sulla morte – problemi fondamentali dell’uomo – da parte del Verbo incarnato. Tanto questa esplosione di colore era legata alla cultura cristiana e fatta propria dalla cultura ecclesiastica, che il Protestantesimo non tardò a combattere il colore che trionfava in quell’epoca e in quella cultura. La Riforma imbiancò le cattedrali, cancellò i loro affreschi e i loro dipinti. Cercò, insomma, di imporre la “serietà” dei colori scuri, convinta che i colori accesi dell’arte medievale costituissero un segno distintivo della dissolutezza del Cattolicesimo.

La specificità dell’antropologia cristiana

Il Cristianesimo è convinto dell’importanza dei “segni”. L’uomo non può accostarsi alle realtà invisibili senza che queste siano significate visibilmente. Vi è un motivo antropologico: l’uomo non è solo spirito ma anche corpo, egli deve arrivare con tutto se stesso al divino. Gesù stesso ha voluto segni per i suoi sacramenti. La dignità anche corporale dell’uomo ha determinato, rispetto alle culture precristiane, un cambiamento radicale di prospettiva nell’ambito del lavoro, si pensi all’“Ora et labora di san Benedetto: il lavoro manuale ha dignità quanto quello intellettuale. Ma torniamo alle arti figurative. Nella prospettiva cristiana tutto ciò che l’uomo crea assume dignità artistica per due motivi. Primo: perché la manualità dell’uomo rappresenta un’attività dignitosa (a differenza della mentalità pagana in cui la manualità era un’attività da schiavi). Secondo: perché un’opera per essere artistica deve anche avere una funzione armonizzante con il vero, deve cioè tendere al vero. Famosa è una favola medievale che racconta di due penitenti che si accostano a una immagine della Madonna per invocare una grazia. Uno è un bravo suonatore di viola, l’altro un povero calzolaio. Il primo si mette di impegno e suona la più bella melodia che conosce... e la sua preghiera viene esaudita. Il povero calzolaio, invece, dinanzi a quella musica stupenda non osa proporre nulla alla Vergine e crede che il suo pellegrinaggio sia stato vano. Poi gli balena un’idea: potrebbe creare per la Madre di Dio delle graziose scarpette, così che possa apparire ancora più bella tra le schiere degli angeli. Si mette di buona lena e fabbrica delle stupende scarpette dorate. Ma non ha il coraggio di offrirle alla Madonna: dopo che Ella aveva ricevuto in dono una melodia così bella, non osa presentare alla Vergine così poca cosa come un paio di scarpette, anche se finemente decorate. Si fa comunque coraggio. Ed anche a lui la Madonna concede immediatamente la grazia. La Vergine apprezza quelle scarpette, quanto la bella melodia. Ciò che rende gradito un dono non è il contenuto in sé, né tanto meno la forma, ma il dare il meglio di se stessi – quindi il proprio cuore – nel momento in cui si produce il dono. La cultura cristiana, ponendo la manualità dell’uomo in una dimensione altrettanto nobile quanto l’attività intellettuale, fa sua una convinzione che è già presente in una parte – dunque non in tutta – della cultura classica: nelle arti figurative non c’è differenza tra artista e artigiano. Però, mentre nella cultura classica l’identificazione risulta penalizzante per l’artista, perché quest’ultimo viene in un certo qual modo abbassato ad artigiano; nella cultura cristiana avviene il contrario: è l’artigiano che può divenire artista... indipendentemente da cosa costruisce e sa costruire. Nella cristianità medievale, vi è l’obbligo di fare cose belle. Anche le cose utili devono essere belle; e la stessa bellezza ha una sua utilità. Scrive Van Loon, storico delle idee: «(...) un francese o un italiano del Duecento o del Trecento avrebbe scosso il capo perplesso, se qualcuno avesse espresso seri dubbi circa l’utilità di esser circondati da cose belle». Finanche san Tommaso d’Aquino, spesso tacciato erroneamente di freddo intellettualismo, ha parlato in una certa maniera dell’arte. Ricercando nell’Index thomisticus si possono trovare citazioni come questa: «(...) belle sono le cose , anche fatte bene dall’uomo, che, anche soltanto viste e sentite, comunque cognite, danno gioia».

Il mistero dell’Incarnazione

Il rapporto Cristianesimo-valore dell’immagine si fa più evidente considerando il mistero dell’Incarnazione. Il Verbo incarnato rivela pienamente il Padre e rende visibile il Padre: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gn. 14,9). In nessun’altra religione troviamo una verità di tal genere. È anche per questo che in contesti nati e sviluppatisi nella cultura cristiana, le arti figurative raggiungono le espressioni più alte. Se Dio si è manifestato visibilmente all’uomo, allora l’immagine diviene un valore che si fonda anche metafisicamente. In un certo qual modo non si può fare a meno dell’immagine. Nel Cristianesimo, l’immagine diviene anche arma contro lo spiritualismo. Proprio perché legata al mistero dell’Incarnazione, diviene difesa di questo mistero. Il noto maestro campionese,Benedetto Antelami, che operava a Parma intorno al 1200, utilizzava la sua arte scultorea per arginare il Catarismo, eresia gnostica e spiritualista, che negava i valori dell’Incarnazione e della Croce. La sua scultura è tutta un inno sublime – parimenti poetico e comunicativo – alla “carnalità” del Cristianesimo. Nel Battistero di Parma, l’umanità di Cristo e i fatti più importanti della sua vita sono descritti in tutti i particolari terreni, ma pregni dell’azione divina, redentrice del mondo. Il Cristianesimo evidenzia nelle arti figurative l’aspetto comunicativo, rendendole veicolo dei temi forti della fede. Ciò a partire già dall’età paleocristiana, con le raffigurazioni simboliche delle catacombe: il Buon Pastore, il pesce, la colomba, il pavone, le agapi, le figure di oranti con le braccia aperte che simboleggiano l’anima pia. Questo interesse comunicativo si intensificò poi nei secoli successivi quando l’arte cristiana poté liberarsi dal rigidismo simbolico delle origini, assumendo un maggiore e più convincente spessore narrativo. Arrivò il momento in cui gli artisti cristiani vollero andare oltre le fonti canoniche per trovare più particolari da descrivere. Scrive Piero Bargellini: «Dall’ingenuo desiderio di sapere di più, sorsero, fin dai primi anni, i cosiddetti Vangeli apocrifi, ai quali gli artisti s’ispirarono più volentieri che non ai vangeli canonici, scarni ed essenziali. Anche gli Atti dei Martiri subirono interpolazioni leggendarie, formando passioni spesso fantastiche. Le storie degli Eremiti, poi, completarono tutta una letteratura facilmente illustrabile, dalla quale derivò molta materia offerta all’arte, considerata particolarmente adatta, per edificare e commuovere le anime dei fedeli». Ed ecco le raffigurazioni musive dei templi bizantini, le luminose vetrate delle cattedrali gotiche, i dipinti ciclici di Giotto raffiguranti temi narrativi di grande respiro, in cui tutto si fa vivo, in cui è impossibile non penetrare e sentirsi parte integrante delle immagini rappresentate. «Con Giotto – scrive Hans Sedlmayr – nasce (è, questo, un avvenimento di importanza universale) una pittura che, nella superficie liscia del quadro, rappresenta i corpi con luci e ombre, nella loro completa rotondità, gli spazi nella loro spazialità, una pittura che concepisce prospettivamente le cose nel loro rapporto visibile. Il dipinto, comprendente in sé pittura, scultura e architettura, diviene un microcosmo, il successore cioè, della cattedrale. Esso procede cominciando dalla rappresentazione di avvenimenti e di figure sacre, collocati su una “scena”, per giungere poi alla loro rappresentazione nella realtà (sembra che proprio in quel preciso momento essi stiano davanti a noi) e alla loro proiezione nel presente. Tutto il mondo che ci circonda viene così santificato e scoperto passo passo». Alla finalità comunicativa, l’arte cristiana unisce sempre l’intento della suggestione mistica, dell’invito alla preghiera e alla contemplazione delle verità escatologiche.  

Le pietra che si fa preghiera

Per concludere questo itinerario sul rapporto Cristianesimo-arti figurative, diciamo qualcosa sull’arte medievale, cioè sull’arte di quell’epoca che, pur con tutti i suoi limiti, ha cercato d’incarnare nella vita quotidiana e nel giudizio dell’uomo la verità evangelica. Nelle cattedrali gotiche la preghiera diventa pietra, o meglio: è la pietra che si fa preghiera. La cattedrale gotica, scrive Hans Sedlmayr, «diviene immagine sensibile e visibile del cielo». La cattedrale gotica è un invito a considerare il miracolo di una vita che “conquista” il Cielo, significato da un altro miracolo, quello architettonico: le colonne non sono rigorosamente allineate, eppure sostengono perfettamente il peso della costruzione. Le volte girano su se stesse, s’incrociano, si superano vicendevolmente. Sembra impossibile che questa maestosità di pietra possa stare in piedi. Qui, archi rampanti, contrafforti, timpani, pinnacoli, torri, guglie non sono elementi decorativi: sono espressione di uno slancio verticale, che è tensione verso il cielo. Una tensione che non è astrazione. Tutto si staglia poggiando pesantemente sulla terra, pesantezza tanto leggera che si eleva al cielo, quasi a significare che l’elevazione deve partire dalla materialità del quotidiano; così come, con l’Incarnazione, la salvezza si è realizzata nella carnalità di Cristo. Quanto diversa la spinta verticale di queste cattedrali, tese verso il cielo – ma ben radicate a terra – come braccia imploranti, dall’espansione tutta orizzontale del tempio pagano, totalmente dissolto nella terreneità, dove le colonne massicce, la regolarità assoluta della sua pianta, i canoni delle decorazioni, le linee orizzontali, non costituiscono un invito alla elevazione.  

La elevazione della vita quotidiana

Il Cristianesimo non impone la suggestione mistica solo per il luogo sacro, ma anche per i luoghi della vita quotidiana, essendo l’Incarnazione la sublimazione del quotidiano. L’urbanistica della città medievale è pensata, studiata, per destare stupore, meraviglia. Bonvesin de la Riva, nel XIII secolo, tiene a enumerare con stupore tutti le meraviglie della sua Milano. Ed è una meraviglia la città di San Gimignano con le sue numerosi torri – veri e proprisilos asciugapanni utilizzati dai tintori – collegate con passerelle. Si poteva vivere a San Gigimignano quasi senza toccare terra, a dimostrazione di quanto l’uomo debba elevare al cielo le sue ansie quotidiane. Il fattore “sorpresa” è determinante per capire il simbolismo dell’urbanistica medievale. La presenza della “sorpresa” è segno che la vita umana non può fare a meno dell’avvenimento cristiano: la sorpresa del Dio-Uomo che irrompe nella storia di ognuno. Il rifiuto della pianta regolare, nella città medievale, non è dovuto al fatto che esse vengono edificate sulle alture, quanto a questo bisogno dell’inaspettato, del nuovo, della sorpresa che esplode inaspettatamente. Dopo aver percorso strade strette e sinuose, ecco l’esplosione immediata e folgorante della Cattedrale maestosa, che s’innalza al di sopra di ogni altra costruzione e perciò appare ancora più alta. Scrive lo storico dell’arte Lopez: «(...) il Medioevo in generale non ha avuto simpatia per la pianta regolare e la via larga e diretta. Al contrario, quasi tutte le città non hanno un solo centro ma parecchi, non arterie parallele ma vie tortuose che puntano in varie direzioni. (...) già Tacito nota e deplora il fatto che i Germani, “forse perché incapaci di costruire”, impiantano la loro dimora dovunque li attiri una fonte, una collina, una foresta. Ma il grande storico non si rendeva conto che anche la sorpresa e l’apparente disordine possono avere il loro fascino; un edificio visto da lontano è rimpicciolito ai nostri occhi, una chiesa che sbuca alla svolta di una via stretta e tortuosa ci sembra più maestosa e più alta». Il mistero dell’Incarnazione impone che le arti figurative siano manifestazioni non lontane dalla vita, non astratte, non disincarnate, ma si collochino all’interno della dinamica dell’esistenza dell’uomo. Molti dipinti medievali raffigurano, oltre gli avvenimenti significativi della Storia della Salvezza, scene di vita quotidiana: contadini che legano i covoni, che uccidono il maiale, che banchettano e si riposano. Andrea Pisano, scultore del Trecento, scolpisce, nella zona inferiore del campanile di Giotto a Firenze, ventidue rilievi poligonali che sono una vera e propria glorificazione dei mestieri dell’uomo.   Bibliografia H.Sedlmayr, Perdita del centro, Borla, Roma 2011. P.Bargellini, L’Arte cristiana, Belvedere, Firenze 1959. R.Pernoud, Luce del medioevo, Volpe, Roma 1978.    Corrado Gnerre